RS – Centenario: Marzo 1914 quando Salandra disse: “Vai Sereno, Giolitti…”

di Aldo A. Mola, il Giornale del Piemonte, 30 Marzo 2014

Quando finì “l’età giolittiana?” Il dibattito dura da un secolo. Per qualcuno lo Statista ebbe le ore contate sin dalla dichiarazione di guerra all’impero turco per la sovranità sulla Libia (ottobre-novembre 1911).Secondo altri fu travolto dalle prime elezioni a suffragio universale maschile, che proprio lui aveva voluto come capolavoro della sua politica. Di sicuro Giolitti finì in un angolo senza prevederlo né capirne bene il perché. Anch’egli, insomma, è tra i Sonnambuli: statisti, diplomatici, militari che (ha scritto Christopher Clark in Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, ed.Laterza) marciarono verso la fornace ardente trascinandovi o senza fermare i rispettivi popoli.

I fatti. Al governo dal 30 marzo 1911, il 21 marzo 1914 Giovanni Giolitti, piemontese, classe 1842, passò le consegne al nuovo presidente del Consiglio, Antonio Salandra, pugliese, di nove anni più giovane. Quattro volte capo dell’esecutivo, Giolitti aveva vinto le elezioni nell’ottobre 1913. Alla riapertura della Camera ottenne 362 voti contro 90 e 13 astensioni. Ma in Aula alcuni deputati echeggiando umori extraparlamentari: il socialista Orazio Raimondo, il sindacalista Arturo Labriola, il clerico-nazionalista Luigi Federzoni, fiero di aver sconfitto Scipione Borghese nel prestigioso collegio Roma I. Lasciata la moglie a Frascati, Giolitti si ritirò a riflettere in Cavour. Vi condusse vita cadenzata: in piedi alle 7, colazione con caffè-latte e uova, lettura dei giornali, passeggiatina, “lavoro d’ufficio” sino al pranzo delle 12, una partita a tarocchi, una seconda sgambata, lettura, ancora lavoro, una visita ad amici,passeggio nella galleria di casa sino a cena,intorno alle 7, poi una partita a bigliardo e a letto alle 10. “Un gran riposo di cui avevo bisogno” confidò alla moglie.

Il 3 febbraio 1914 presentò alla Camera un ventaglio di disegni di legge: anzitutto lavori pubblici per alleviare la disoccupazione e aumento delle imposte sulla ricchezza. Una sfida ai reazionari. Il 4 marzo rivendicò il successo dell’impresa di Libia e chiese fondi per dare “un po’ di civiltà” alle popolazioni di Tripolitania e Cirenaica. Ottenne 363 “si” contro 83 “no”. Ma i radicali, rafforzati alle elezioni dell’ottobre 1913, passarono all’opposizione. Chiedevano aconfessionalità dello Stato e lotta contro protezionismo e ipertrofia burocratica e militare. Nulla di diverso da Giolitti per il quale lo Stato (incompetente in questioni religiose) e la Chiesa cattolica (libera, ma nella sua sfera spirituale) sono due parallele che non debbono né intrecciarsi né intralciarsi; e aveva sempre combattuto ogni forma di spreco e di parassitismo. Però, come poi si disse del Partito d’Azione, i radicali non sapevano bene che cosa volessero ma lo volevano subito. Capita l’antifona, il 10 marzo Giolitti si dimise, nella generale convinzione che presto sarebbe tornato al potere, come era accaduto nel 1903-1905, nel 1906-1909 e nel 1911. Invitato da Vittorio Emanuele III a formare il governo (sarebbe stata la sua terza volta) Sidney Sonnino rinunciò. Allora il re incaricò Salandra, autorevole esponente della Destra liberale: sottosegretario sin dal 1892, più volte ministro del Tesoro e delle Finanze con Crispi, Pelloux e Sonnino. Giolitti stesso convinse il fido Antonino di San Giuliano, marchese di Paternò Castello, a rimanere ministro degli Esteri, pilastro portante della politica nazionale italiana mentre l’Europa era inquieta per le guerre balcaniche e le tensioni tra impero d’Austria-Ungheria e regno Serbia, spalleggiato da Russia e Francia.

Il nuovo governo comprese ministri di provata esperienza: Ferdinando Martini, ora alle Colonie, era stato all’Istruzione con Giolitti nel 1892, anche Daneo e Luigi Fera erano stati all’Istruzione. Il nuovo governo era un concentrato della Terza Italia. Ogni ministro era guardato a vista da un sottosegretario che ne bilanciava o correggeva il peso. Che cosa si attendeva il Paese dal nuovo governo? Nulla di diverso dal precedente. Nulla di meno rispetto a quello che prima o poi sarebbe seguito. Il 5 aprile Salandra ottenne la fiducia: 303 voti contro 122 (socialisti,repubblicani, radicali) e 9 astensioni.

Giolitti si concesse una meritata vacanza. Il 3 aprile era già a Parigi. Intendeva visitare Bruxelles, Anversa, Rotterdam. Agli albergatori ordinò di rispondere che “era uscito” a chiunque cercasse di lui. Voleva stare in pace. Visitò Parigi da turista: la Tour Eiffel, il Bois de Boulogne, il castello di Chantilly. Passeggiò a lungo nel “magnifico parco” di Versailles.

Era finita l’età giolittiana? Si dimise per un banale conflitto all’interno della maggioranza. Come fosse oggi, quell’Italia era ossessionata dalle gare di partito: congressi politici, giornali, chiacchiere… In secondo luogo nessuno pensava che Salandra sarebbe durato. In giugno esplose una rivolta anarco-socialmassimalista (con aiuti esteri: anzitutto dalla Francia), imbrigliata grazie alla rete di sicurezza collaudata da Giolitti. Ma d’improvviso, appena un mese dopo,l’Europa precipitò nella guerra generale scongiurata per un secolo. Lì, non prima, finì l’egemonia di Giolitti. A quel punto il liberalismo italiano mostrò la sua profonda debolezza. Aveva puntato sulla liberazione dei popoli dal sistema della Santa Alleanza, si era proposto come modello per le nazioni senza Stato (polacchi, finlandesi, boemi,… ), ma era chiuso nella gabbia del concerto delle grandi potenze: non violini o clarinetti ma rombi di cannone.

Nelle Memorie Giolitti scrisse che Guglielmo II di Germania era un pacifista convinto. Forse non lo erano i suoi generali: Alfred von Schlieffen e Helmuth Johann von Moltke. Non lo erano gli alti comandi dell’Impero austro-ungarico. Non lo erano i generali di Francia, Gran Bretagna, Russia. I più prudenti erano gli italiani. Il ministro della Guerra, generale Domenico Grandi, si domandava se il Paese avrebbe seguito il governo in un conflitto di vaste dimensioni. Rassegnò le dimissioni. Armamento non significa necessariamente offensiva preventiva. Perciò, libero dai fastidi dei presidente del Consiglio, dieci giorni dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo Giolitti continuò tranquillamente a “passare le acque” a Vichy: “paradiso dei medici”. Si concedeva ogni giorno un bagno purificatore e camminava “tutto il giorno come l’ebreo errante non avendo altro da fare”.

Di lì a poco l’Europa esplose. Qualcuno pigiò il dito sul detonatore. Nessuno fermò l’incendio. Molti conclusero che forse l’Universo ha un Grande Architetto ma tanti suoi “apprendisti” seguono una regola affascinante e agghiacciante: l’Ordine nasce dal Caos. Al Bene si arriva con l’accelerazione del Male.

Messo alla prova, il liberalismo italiano risultò incerto, diviso, una somma di clans regionali e di clientele personali, impari alla prova suprema: la grande guerra. Perdurava lo squilibrio tra la Corona, il governo, il Parlamento. Anzi, proprio la prima Camera eletta a suffragio universale risultò evanescente nell’ora decisiva. Allo scoppio del conflitto, per la prima volta in vita sua Giolitti era a Londra. Si precipitò a Parigi per raccomandare al governo la neutralità; Salandra si dichiarò d’accordo: “Stai sereno, Giolitti…”. Ma pochi mesi dopo avviò di nascosto il cambio di alleanze. “E’ stato tutto un inganno…” commentò duro lo Statista della Nuova Italia. (*)

(*) Per riflettere sul 1914, anno cruciale della storia d’Italia, il Consiglio Regionale del Piemonte organizza un convegno di studio (24 ottobre) a Palazzo Lascaris: istituzioni, forze politiche, economia, fermenti culturali. Il liberalismo italiano arrivava da Camillo Cavour, Urbano Rattazzi, i Lamarmora, Sella…, e conobbe una nuova fioritura con Luigi Einaudi. Ma non si epurò mai dalle tossine messe in circolo dalla Grande Guerra.

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